Terre vulnerabili 4/4

06.05 – 17.07.2011

Mostra Passata

A cura di Chiara Bertola con Andrea Lissoni

L’anello più debole della catena è anche il più forte perché può romperla (Stanislaw J. Lec)

Ackroyd & Harvey / Mario Airò / Stefano Arienti / Massimo Bartolini / Stefano Boccalini / Ludovica Carbotta / Alice Cattaneo / Elisabetta Di Maggio / Rä di Martino / Bruna Esposito / Yona Friedman / Carlos Garaicoa / Alberto Garutti / Gelitin / Nicolò Lombardi / Mona Hatoum / Invernomuto / Kimsooja / Christiane Löhr / Marcellvs L. / Margherita Morgantin / Ermanno Olmi / Roman Ondák / Hans Op De Beeck / Adele Prosdocimi / Remo Salvadori / Alberto Tadiello / Pascale Marthine Tayou / Nico Vascellari / Nari Ward / Franz West

La catena e l’anello della frase di Stanislaw J. Lecportano inevitabilmente con sé l’immagine della connessione fra gli elementi. È così che l’ultima suggestione di Terre vulnerabili è anche la metafora di un’intera e lunga mostra leggibile come un processo ciclico in cui gli eventi si susseguono uno come conseguenza dell’altro. Allo stesso tempo, evoca anche Le soluzioni vere vengono dal basso, il primo titolo delle quattro fasi di Terre vulnerabili. L’anello fragile che rompe la struttura, racconta però anche le dinamiche di un gruppo di lavoro e il processo che richiede per arrivare all’opera finale; in essa rivela la sua forza, perché è l’elemento che crea l’istante distruttivo, la frattura, aprendo una nuova fase e una diversa possibilità di sviluppo e di senso. Ecco perché è anche un’immagine che può rappresentare un’efficace metafora dell’artista, la figura quasi per definizione del “disallineato” rispetto alle regole, agli schemi prestabiliti e prevedibili. Fragilità come creatività, dunque, come luogo in cui si può rivelare l’essenza dell’arte. Walter Benjamin aveva intravisto questo legame. Nella sua visione messianica la storia non è una progressione lineare e continua di fatti incatenati tra loro in modo necessario; il suo senso emerge piuttosto nelle pieghe e negli anfratti dello sviluppo, proprio là dove qualcosa infrange l’ordine e la consequenzialità: in quell’attimo rivoluzionario irrompe la libertà, la possibilità di riscattare le rovine del passato che si estendono davanti agli occhi degli uomini. Allora l’Angelus novus – così il pensatore tedesco immagina l’artista, il filosofo, il poeta… – è travolto verso il futuro: guardando con dolore al passato si protende verso un avvenire diverso, un mondo forse migliore. Nell’attimo fragile e critico della riflessione, dello sguardo cosciente rivolto al mondo, infrange l’abitudine, la rassegnata scansione dei momenti, scoprendo il regno della possibilità e dell’utopia. Nella sua vulnerabilità e fragilità, l’artista compie un gesto potente. Terre vulnerabili si trasforma per un’ultima volta, evolve radicalmente ed assume la sua forma finale, avendo rinunciato ad una definitiva a favore della variazione e dell’infinita possibilità. Ha luogo interamente nello spazio “alto” dell’Hangar, abbandonando lo Shed e accogliendo ulteriori quattro nuove opere, di cui quelle di Alberto Tadiello, di Pascale Marthine Tayou e di Nari Ward appositamente realizzate e quella di Roman Ondák inedita in Italia. Ne vede alcune trasformarsi ancora (Bruna Esposito, Margherita Morgantin) altre crescere oppure sciogliersi (rispettivamente Ludovica Carbotta, Adele Prosdocimi, e Invernomuto), altre ancora sommarsi ad altre preesistenti (Alberto Garutti, Christiane Löhr, Elisabetta Di Maggio), molte infine muoversi e ricombinarsi fra loro in nuove ed inaspettate configurazioni….

Foto: © Agostino Osio

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